Brani:  
 

Io e Trentatrè

Stai dentro al bagagliaio, con il muso appoggiato, anzi abbandonato, sul bordo dello schienale posteriore e guardi avanti. Il mio sguardo incrocia il tuo, nello specchietto laterale della Golf, ed io mi prendo tutto quello che stai vivendo, anzi che stai morendo.

Annalena 
“È l'ultima volta, Trentatrè, che vedi il bosco di Montemarano..”

Trentatré
“Me ne sto andando, mamma-padrona, non so dove e non so perché, ma è così, perché me lo hai detto tu, stamattina, abbracciandomi con il viso pieno di lacrime. Tu e babbo-padrone, in fretta, avete chiuso le finestre, la porta di casa, avete caricato la macchina. Le zie, zia Lalla e zia Edda, hanno fatto, in silenzio, tutto quello che voi dicevate con agitazione. Stamattina era una giornata bellissima e tu, mamma, hai messo la sedia a sdraio sull’aia, chiedendomi di stare vicino a te, per scaldarmi al sole. Io tremavo ma non volevo stare al sole, volevo stare vicino a te e vicino a babbo-padrone. Io ho cercato di seguire babbo-padrone in cantina, ma sulle scalette bianche, quelle sotto l'albero di prugne francesi, mi sono venute meno le zampe di dietro. Lo so che vi agitate quando mi vedete affannare. Ho affannato tutta la notte e voi siete stati svegli, vicino a me. Tu hai detto ti prego, Trenta, ti prego: non morire. Te lo chiedo per piacere! Lo dici spesso da un po' di tempo, mamma padrona.”.

Annalena 
“Ti prego, Trenta, ti prego, non morire. Guarda che bello il bosco. Ti ricordi quante volte noi due siamo arrivati a piedi fin qua, da casa. È un corridoio verde, il cielo nemmeno si vede tanto che le chiome degli alberi si intrecciano. Ed è verde, verde, tutto così verde fino a che lo sguardo si perde. Tu correvi avanti e tornavi indietro da me con la lingua umida e rosa che scendeva penzolone dal muso nero. Negli ultimi anni era diventato bianco il tuo muso ed affannavi un poco di più di quando eri ragazzino. Ti ricordi, Trentatrè, quando eri ragazzino e facevamo quelle incredibili escursioni, noi quattro con Alfredo e Simone, in Trentino e tu correvi avanti, in avanscoperta, per centinaia di metri finché non diventavi un puntino nero con una lunga coda nera che faceva un cerchio concentrico, verso l'alto, e poi ti giravi, e spaventato di averci perduto, tornavi come un razzo verso di noi, con i bambini che agitavano le braccia e gridavano il tuo nome? Le tue orecchie erano ali nere, che sollevate all'indietro, sembrava che ti sollevassero da terra tanta era la velocità con cui atterravi da noi. Qualcuno, intorno, si spaventava prendendoti, forse, per un lupo selvatico impazzito. Una volta una bambina, pensando che tu ti stessi dirigendo verso di lei, terrorizzata, stava buttandosi in un burrone.”

Trentatrè 
“Mi ricordo, mamma-padrona. E tu ti ricordi, quando venivamo fin qua, al bosco e tu ti spaventavi quando io mi immobilizzavo, di traverso, al centro della strada, mentre arrivava qualche macchina. Non ne volevo sapere di spostarmi e tu mi dovevi tirare per il sedere, chiedendo scusa all'autista. E, a me, con uno scappellotto: Ma sei cretino! Domani non ti porto più. Tu mi fai venire un infarto.” 

Annalena
“Ti mortificavi molto e per un po' stavi con le orecchie abbassate e la coda fra le zampe, finché non arrivava un'altra macchina… era un incubo per tutto il tempo della passeggiata. 
Uh guarda, Trenta, le mucche. Le tue nemiche di sempre. Abbaia, forza!”

Ora, dallo specchietto laterale, vedo la sagoma della tua testina nera, lucida, sempre lucida, anche ora, con le orecchie appena tese ed orizzontali per metà. Guardi la strada dal vetro posteriore, guardi le mucche indolenti che procedono, ondeggiando al centro della carreggiata. Arriverai vivo a casa, Trentatrè? Come diremo ai ragazzi che è proprio la fine... 

Trentatrè 
“Voglio stare ancora un poco con i miei fratelli Alfredo e Simone.”

Le lacrime scendono a fiotti sul mio viso. Sono contenta che Trenta non mi veda, attraverso lo specchietto. Le zie sospirano e lo coccolano. “Trentatrè come stai? Povera creatura. Madonna mia.” Antonio che guida mi accarezza i capelli. Sorride con gli occhi pieni di lacrime: “vedrai che ce la farà. Anche questa volta ce la farà.” Ma le sue mani stanno aggrappate nervosamente sul manubrio. Incrociamo l’auto di Generoso, il nostro vicino, amico contadino: “che fate, ve ne andate adesso con questa bella giornata?” È un' aprile veramente incantevole. Lui sbircia nel bagagliaio quando gli diciamo che il cane sta male. “Eh … questi pure sono dolori.” 

Trentatrè 
“Sto proprio veramente male, mamma-padrona?” 

Non impariamo mai che lui capisce tutto, ha un suo vocabolario limitato e definito, ma capisce perfettamente gli stati d'animo prima e di più delle parole. Quando abbiamo litigato, qualche volta, in famiglia, lui si è sempre nascosto, tremando per molto tempo, dopo il litigio. Ho sempre pensato che ci fosse una componente in più nella sua paura: il complesso di colpa. Era stato lui la causa dei litigi. Che cosa aveva combinato? Ci faceva talmente tanta tenerezza il suo muso spaventato, il suo sguardo languido e mortificato che, con una certa dose di crudeltà, qualche volta, io e i ragazzi, abbiamo simulato una arrabbiatura con lui: “Trentatrè, che cooosa hai fattooo?!” 

Trentatrè 
“Mamma-padrona tornerò ancora alla casa di Montemarano? Starò ancora sotto il pergolato sull’aia? E dimmi: potrò ancora cercare le grosse pietre per seppellirle?” 

Annalena 
“Come facevi Trenta a trascinare certe pietre così grandi? Dovevi tenere la bocca spalancata al massimo e qualche volta ti ferivi le gengive. In casa ci inciampavamo sopra.”

Trentatrè 
“Non ti permettere mai più di portarle in casa!!- E me le lanciavate sul prato intorno all’aia o dietro alla casa, dalla parte della cucina. Vederle rotolare era irresistibile. Come quando babbo-padrone mi lanciava i legnetti ed io abbaiavo e correvo e glieli riportavo e abbaiavo, abbaiavo e tu ti arrabbiavi con me e  con babbo-padrone. Veramente portare le pietre in casa mi è sembrato sempre una cosa giusta e nobile da fare per la mia famiglia. Se qualche volta decidevo di nasconderle, scavavo un fosso, con un'infinita fatica e ce le mettevo dentro e poi, graffiandomi il naso e insudiciandomi il muso fino agli occhi, ricoprivo il fosso. Ma quasi sempre Alfredo e soprattutto Simone piombavano all'improvviso “ti abbiamo visto! Ti abbiamo visto!” Allora scavavo di nuovo, riprendevo la pietra e cercavo un altro fosso. Lo rifarò mamma?”

Annalena
“Io credo che tu potrai farlo per l'eternità.” 

Trentatrè 
“L'eternità è quel melo, quello grande dietro alla casa, nel prato dove mi hai portato, piano piano, stamattina e piangendo mi hai chiesto: ti piace essere sepolto qua?”

Annalena 
“Ti prego, Trenta, ti prego, non morire.”

Trentatrè 
“Allora non potrò andare più nemmeno al capanno. Là le pietre me le lasciate stare.”

Annalena
“A te non è mai piaciuto trattenerti nel capanno, Trenta. Io ci vado per recitare il Rosario, davanti alle fotografie di mia madre, dei miei suoceri, di Diego. È stato Diego, 16 anni a dicembre di quell' anno, 1993, che lui non compì perché morì il primo agosto, a dire che dovevamo lasciare la porta del capanno sempre spalancata perché, così, gli animali, tutti gli animali, potevano rifugiarsi là per difendersi dal gelo e dalla pioggia. 
Noi così abbiamo fatto. E il pavimento del capanno è ormai un'alta e morbida coperta di foglie ed erbe secche. C'è un ronzio incessante di api innocue e il cinguettio degli usignoli che stanno sul ramo che da spallate, rigoglioso, sulla parete fatta di tavole di legno e s’intriga nella fenditura, quasi squarciandola. Ciononostante c'è silenzio, più silenzio, ancora più silenzio che altrove. Tra distese di vigneto, di prato e di bosco. Quel più-silenzio ti ha sempre intimidito, Trenta: ogni volta venivi a sbirciarmi e mi guardavi mortificato perché te ne volevi andare via, subito.”

Trentatrè 
“Dovevo andare da babbo-padrone, al pozzo giù. E poi i miei fratelli mi potevano cercare.”

Annalena
“Ci hai sempre voluti tenere tutti sotto controllo.” 

Trentatrè
“Voi siete tutto per me.”

Annalena 
“Però, quando sparivi, facendoci preoccupare, non ti importava di noi! Ma dove andavi? Noi chiamavamo:Trenta, Trenta. E i ragazzi andavano su e giù e una volta Antonio è venuto a cercarti con la macchina. Dove te ne andavi?” 

Trentatrè 
“È un segreto.” 

Annalena 
“Di’ la verità. Ti eri fatto una fidanzata? Una volta sei tornato ferito. Dei cani ti hanno aggredito?”

Trentatrè
“È il mio segreto.”

Ora mi guardi di nuovo, attraverso lo specchietto laterale, languido col muso appoggiato al sedile. Zia Lalla ti accarezza la testa. Come sei bello, Trenta. Ancora stamattina, la coda, lunga e nera, per un momento, ha fatto un cerchio concentrico verso l'alto. Ma non hai saltellato. Il tuo saltellare, così caratteristicamente tuo, un misto di galoppamento e trotterellamento era la certezza del tuo stare bene e, se eri stato male, che tu stavi di nuovo bene. Quando siamo partiti, ti abbiamo dovuto prendere in braccio. Questo, per te, è molto mortificante, lo sappiamo. 

Trentatré 
“Ti ricordi quando correvo lungo il pendio della casa degli spiriti?” 

Annalena 
“Eri un siluro nero. Andavi con i ragazzi ad ispezionare i fantasmi della casa degli spiriti che stava almeno a 4-500 metri dalla aia. E poi io, a gran voce, e Antonio con il suo fischio ti chiamavamo e tu, giù, senza ritegno, ti lanciavi capitombolando, con la tua magnifica falcata con le zampe posteriori, orizzontali rispetto al corpo nero, lucente ed affusolato, tuffandoti nell’erba alta che, a tratti, ti faceva sparire. In pochi secondi stavi da noi.”   

Trentatrè
“Ma poi tornavo da Alfredo e Simone e dai loro compagni perché strillavano se vedevano il fantasma.”

Ora, sospirando, piombi sul pavimento del bagagliaio con il rumore delle ossa e delle articolazioni. Un rumore pesante che abbiamo imparato a riconoscere.
“Zia Lalla, guarda come sta .”
Mia zia si affaccia sul bagagliaio. “Sta riposando, ma sta bene, ha la testa sollevata.”
Fra poco arriviamo a Napoli, a casa. Ci aspetta la tua branda con la trapuntina morbida e fresca, nella penombra della nostra camera da letto. Ci metteremo in contatto con la clinica veterinaria. Vuoi vedere che ce la fai anche questa volta, Trenta? Tante volte ti abbiamo visto spacciato. Certo ora hai 14 anni, ma te la puoi sempre cavare. Tu sei buono e mite, ti fai curare, ti fai fare tutto: iniezioni, fleboclisi, compresse messe sulla lingua, sciroppi sparati alla gola. Dai la zampa, ti fai depilare, guardi babbo-padrone che cerca la vena. Vedrai, vedrai, il tuo veterinario quando andremo, dirà abbracciandoti come sempre: Sciù Sciù, che ti è successo? E a me raccomanderà di non piangere come una fontana perché tu capisci tutto e ad Antonio dirà: proviamo questo, proviamo quello.
 
Trentatré
“Voglio stare ancora un poco con Alfredo e Simone.” 

Alfredo e Simone, ognuno così diverso ed irripetibile con te e per te. Alfredo è stato dal primo momento il tuo fratello grande. Aveva nove anni quando arrivasti, cucciolo, seduto in un cestino, nero, lucido, morbido come sei rimasto sempre, anche ora che sei vecchio e malato. Ti chiamavi Lord e di te volevano sbarazzarsi perché avevi una diarrea irreparabile. Ma noi non lo sapevamo e non lo abbiamo saputo per molti anni: dal primo istante che sei arrivato a casa nostra sei stato benissimo. Alfredo non è che lo temessi, però lo rispettavi molto.  Era un fatto gerarchico: ubbidivi se ti sgridava, correvi se ti chiamava. La mattina presto, spesso, soprattutto quando la scuola era finita, ti andavi ad intrufolare sul suo letto. Ti faceva piacere sentire la mano di Alfredo sulla tua testa, in quel punto morbido dove cominciano le orecchie. Alfredo era costretto a rannicchiare le gambe tutte da un lato per farti spazio, però si beava del tuo calore tenero. 
Con Simone è stato tutto un altro discorso, era tuo fratello più piccolo ed ha conservato questo ruolo per molti anni. “Trenta, ti prego, fatti abbracciare,” supplicava Simone quando dal divano del salotto vedeva il tuo muso fare capolino dietro la porta. Tu schizzavi via e non c'era verso di farti andare da lui. In certi momenti sembravi un cane scorbutico. Eppure eri coccolone quando meno ce lo aspettavamo, soprattutto quando ti piazzavi di traverso sul letto, tra me e Antonio. Certo, facevi un sospirone di sopportazione quando ci azzardavamo a muovere le gambe, ma, tutto sommato, sprofondato in mezzo a noi, ti facevi abbracciare e coccolare. Ed ora che Simone è grande ed ha su di te un ascendente da adulto, ancora dice “ma questo cane, a volte, come è sprucito”. Sai una cosa, Trenta, Simone è esattamente come te: scorbutico e coccolone insieme. Ma lui ancora non lo sa.

Annalena
“Trenta, adesso che torniamo a casa, ci sarà Vitale, il portiere, che ha il suo cane e che ti adora e che scuoterà la testa, tristemente, quando vedrà che ti prendiamo in braccio. Poi ci sarà il nonno Riccio che con un groppo alla gola ti accarezzerà la testa, delicatamente e dirà, per l'ennesima volta: “questo cane ha le ore contate.” Io dirò che non è vero e cercherò di non piangere davanti ai ragazzi. Antonio, pure essendo dritto e forte, sembrerà ingobbito mentre ti solleverà. Lo so già, ma tu non ti preoccupare. E soprattutto non assumere quell'aria mortificata quando inonderai di pipì la casa. Ci siamo organizzati per questo. Lo sai.”

Trentatrè 
“Mi dispiace di sporcare. Non so cosa succede. Io faccio di tutto.”

 
Ti sei alzato di nuovo e faticosamente. Vedo, attraverso lo specchietto, la tua testina nera lucida con le orecchie appena tese ed orizzontali per metà. Il vetro si opaca appena per il tuo respiro affannoso: tu guardi l'autostrada, le automobili. Ti è sempre piaciuto molto. Facciamo benzina, ma il benzinaio non scappa pensando che noi abbiamo un leone a bordo che vuole sbranarlo. Tu non abbai e lui non si accorge nemmeno di te. 

Annalena 
“Ti prego non morire Trenta, te lo chiedo per piacere.” 

Trentatrè
“Non morirò mamma.”

Te ne sei andato, il 10 maggio, tra i pianti e la disperazione di tutti e quattro noi, stesi su di te. 
Simone, il tuo fratello piccolo che adesso è il più grande di tutti, ti ha voluto prendere in braccio lui. “Per l'ultima volta” ha detto. Ti abbiamo messo sulla tua branda e ti abbiamo fatto compagnia il giorno e la notte. Il punto morbido dove cominciano le orecchie è rimasto morbido e per molte ore, a turno, lo abbiamo accarezzato, strofinando, come ti è sempre piaciuto. Sono stati con te, insieme a noi, il nonno Riccio, le zie, Viviana la fidanzata di Alfredo che ha perso il suo cane due mesi fa, Vitale il portiere, gli amici di Alfredo e Simone, soprattutto Eddy e Mario che sono cresciuti a casa nostra, accanto a te. Per Eddy sei stato il cane che ha sempre sognato e che non ha mai potuto avere. Ogni tanto, scuotendo la testa, fa : “è impossibile. Non è possibile.”
Ti abbiamo portato a Montemarano e ti abbiamo sepolto sotto un melo, non quello che avevamo scelto insieme perché lì il terreno era pieno di roccia. È un melo rigoglioso che sta proprio di fronte alla veranda della nostra camera da letto. Abbiamo circondato la tua tomba con innumerevoli pietre, grandissime e bellissime.
E nel capanno, sul tappeto alto e morbido di foglie ed erbe secche abbiamo trovato l’ultima pietra che tu avevi trascinato. La abbiamo lasciata là, accanto alla tua fotografia, nel ronzio incessante delle api innocue ed il cinguettio degli usignoli, in mezzo ad un silenzio che è più silenzio che altrove.

 
     
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